25. Doposcuola

“Non saprei spiegare la strana sensazione che mi procurava l’immagine di Letizia Marconi in lacrime sulle scalette della scuola.”
Piangeva disperatamente e soffiava violentemente nel fazzoletto.
I suoi singhiozzi erano deprimenti e il trucco (che con tanta meticolosità si faceva ogni mattina per andare a scuola) era tutto sbavato, rendendola incredibilmente penosa.
“Sapevo perché stava piangendo. Tutta la scuola lo sapeva. La stupida aveva appena scoperto di essere incinta, con un test fatto nel bagno della scuola. Ma non affrettatevi a provare compassione per lei, perché se la conosceste bene, non desiderereste altro che la sua morte.”
Senza accorgermene il mio sguardo si fissò su di lei.
Letizia se ne accorse:
-Ti piace vedermi in questo stato, stronza?
“Sono due anni, ragazzi, che non mi rivolgeva la parola e l’unica frase che è riuscita a formulare si basa su una sua considerazione di mia completa invidia nei suoi confronti. Che ego.”
-Quel nominativo non credo sia adatto a me.
Si alzò guardandomi negli occhi.
“La voglia di sfogare la sua rabbia su qualcuno le è impossibile da nascondere.”
-E io invece credo che ti cada a pennello. Pensi che non mi accorgo di come mi squadri male sui corridoi, a ricreazione?
Con calma le rispondo:
-Non ti sei mai domandata se questa fosse soltanto una tua sensazione?
-Si, si, eh,eh. “Una mia sensazione”. Ammettilo, tu sei invidiosa di me. Tu mi odi.
Disse questa frase ponendo enfasi su ogni parola indicandomi.
-Dovrei veramente così tanto? È vero, non mi stai simpatica e la mia considerazione di te è talmente bassa che non saprei nemmeno che tipo di confronto fare per rendere l’idea, ma questo non significa che tu sia al centro dei miei pensieri tutto il tempo. Non ti odio, ti preferisco ignorare.
La mia risposta sembrava averla scoraggiata dal tentativo di avere un confronto dialettico con me e mi dava l’impressione di averla calmata.
-Io al tuo posto…mi odierei.
Disse e mi rivolse un sorriso disperato:
-Ho distrutto tutti tuoi sogni, ciccia! Saresti matta a non odiarmi.
Ci guardammo intensamente, lei si diede un’asciugata al naso rapidamente.
“Non hai tutti i torti, Letizia.”
-Sogni? Che sogni poteva avere una ragazzina di quindici anni? Comunque sia, non ho intenzione di parlare del passato. Piuttosto, non so se tu te ne sia accorta, ma tutta la scuola sa che sei incinta. Che modo disperato di voler attirare l’attenzione, quel test potevi pure farlo a casa.
A questa mia frase mi sorrise e si accese una sigaretta.
-Già. Ora tutti lo sanno. I miei genitori non possono ignorarmi sta volta.
“Patetica creatura. L’unica sfortuna che abbia mai avuto è quella di avere dei genitori che sanno solo viziarla. Talmente stupida da cercare i modi più disparati per attirare la loro attenzione e quella degli altri, senza mai provare però a migliorare se stessa. Va fiera di aver fatto cose di cui una ragazza normale della sua età si vergognerebbe a tal punto da desiderare di essere morta. Che anima vuota.”
La squadrai male, ma veramente molto male.
-Ecco! Quello! Quello è lo sguardo che intendo! Stronza..
Feci un sospiro pesante.
-Ti sei voluta far mettere incinta?
-Sei così intelligente, non ti si può nascondere nulla, Laura.
Si guardò attorno, erano tutti andati via ed eravamo rimaste solo noi.
Mi sussurrò nell’orecchio con un tono di voce che mi fece desiderare di strozzarla con le mie stesse mani in quel preciso istante.
-Adesso che lo sai, che tu lo dica in giro non renderà giustizia di nessun tipo. A te non crede mai nessuno, nemmeno i professori. Sei troppo intelligente e io questa tua intelligenza te l’ho rivoltata contro. Nessun rimbambito fuori o dentro quella scuola ti crederà mai.
Poi mi diede una spinta e aggiunse.
-Se ne sono andati tutti, ora di finire la commedia. Divertiti a realizzare nella tua geniale testolina come tutta questa storia andrà a finire.
E la guardai andarsene lentamente sulla sua strada, con quella sua camminata altezzosa.
Ero in camera mia sul letto a fissare il soffitto.
“Facile dedurre come tutto finirà. I suoi genitori, strafottenti come sempre, le pagheranno un aborto. Poi lei denuncerà per stupro il coglione di turno che si è scopata l’ultimo sabato nel lurido locale in cui è andata. Vincerà la causa, grazie ai soldini di mamma e papà, intascando anche qualcosa in più, costringendo un povero disgraziato alla galera. Non una, ma due vite, completamente distrutte. Quella del bimbo nel suo grembo e quella del coglione di turno. E tutto questo perché? Per un suo capriccio.”
Presi un cuscino e ci urlai dentro con tutta la mia forza.
“Questa è Letizia. Senza coscienza. Senza empatia. Disumana. Un parassita.”
 
Il giorno seguente la beccai di nuovo all’uscita, avevo intenzione di parlarle.
Si accorse che la stavo seguendo.
-Mi hanno programmato un aborto per la prossima settimana e sto già iniziando le cause per denuncia di stupro. Tu come stai?
-Perché non approfitti di tutto questo per rimanere a casa? Non che ti freghi più di tanto della scuola.
Si girò verso di me.
-Mia intenzione era infatti rimanere a casa, finché ieri non abbiamo avuto la nostra prima conversazione dopo anni. Me lo sentivo che non avresti resistito a parlare di nuovo con me, non potevo perdere l’occasione.
-Avevo bisogno di avere conferma alla mie supposizioni.
-Si sono rivelate esatte?
-Tristemente e perfettamente esatte.
-Ne sono contenta.
-Io no.
Ci fu una breve pausa.
-Non so come spiegartelo, ma in un modo o nell’altro mi manchi, lo sai? Mi manca tutto questo, queste conversazioni così diverse dal solito. Sei l’unica persona che mi conosce per quello che sono veramente.
Poi il suo sorriso strafottente si trasformò in una smorfia, si tolse gli occhiali da sole e fissò il vuoto.
-Cioè un mostro, un’egoista… (Letizia)
-Vuota…(Laura)
-Finta… (Letizia)
-Manipolatrice… (Laura)
-Bugiarda… (Letizia)
-E maledettamente furba. (Laura)
Si rimise gli occhiali da sole, si accese una sigaretta, sputandomi il fumo in faccia.
Dissi subito dopo:
-Vorrei chiudere ogni rapporto con te definitivamente. Come se per me non esistessi più. Voglio dimenticare il tuo nome e voglio che tu dimentichi il mio. Io non devo più esistere per te e tu non devi esistere per me, né in bene né in male.
-E come credi di convincermi?
“Cretina, non ti ricordi che io ho l’unica cosa che per te abbia ancora un valore, su uno scaffale, esattamente sopra la mia scrivania?”
-Ti ridarò l’unica cosa che per te abbia un valore.
Il suo sguardo si riempì di ira e con il dito mi puntò sul petto mentre mi rivolgeva le seguenti parole:
-Ladra, schifosa e infame! Allora sei stata tu a rubare il mio trofeo?
-Si. Quel trofeo che non ti sei mai guadagnata perché hai imbrogliato. Ce l’ho io. Te lo posso ridare, a patto che tu faccia quel che ti ho detto.
-E cosa ti fa credere che io manterrò la promessa, pure se tu me lo ridassi?
-Il fatto che potrei riprendermelo quando voglio, come ho fatto in passato.
Stavolta ero io a sorridere.
-Affare fatto.
-Ti ho scritto tutti i dettagli su questo foglietto. A presto.
Non mi salutò e me ne andai.
Era una notte tranquilla, la collina splendeva alla luce della luna. Letizia saliva lentamente.
Ad un certo punto si fermò vicino ad un ceppo, sedendosi.
Prese tra le mani il foglietto che le avevo consegnato.
-Che pazza svitata, che posto è mai questo? Vabbè. Non importa…per il trofeo farei di tutto.
Si girò il foglietto tra le mani, poi gli diede fuoco.
-Che bella serata, non credi?
Non si accorse della mia presenza e trasalì appena sentì la mia voce.
Si alzò di colpo.
-Brutta stronza! Mi hai fatto prendere un colpo! Allora sei proprio svitata!
“E hai ragione, solo che non sai quanto.”
Dov’è il mio trofeo?
Gli mostrai la busta regalo.
-Proprio qui.
E le sorrisi. Mi guardò male, si avvicinò lentamente e prese la busta.
Dal suo sguardo capii che era sulle difensive.
-Ancora non ho capito il motivo per cui abbiamo dovuto incontrarci qui.
-Non so, mi divertiva l’idea di farti venire la pelle d’oca.
-Certo…se per te questo è divertente…no comment.
Ero dietro di lei, mentre apriva la busta.
“Ma così è pure troppo facile.”
E le saltai addosso, facendola cadere. Aveva iniziato ad urlare.
La stavo strangolando. Lo stavo veramente facendo. Le sentivo gemere sotto di me e lottare.
C’era una forza più grande di me che dirigeva la mie mani.
Non saprei spiegare bene la sensazione che mi procurava l’immagine di Letizia Marconi che moriva a causa mia.” 
Tutto si era rallentato.
Ad un certo punto smise di fare qualsiasi rumore e io allentai la mia presa.
Guardai le mie mani, stavo sanguinando, mi aveva graffiato.
Guardai di nuovo il suo corpo immobile, iniziai a tremare.
È tutto reale? L’ho uccisa veramente?”
Mi avvicinai a lei, non sentivo nessun respiro.
Avevo fissato il mio sguardo nel suo.
Il vuoto.”
Posai delicatamente le dite sporche di sangue sulle sue ciglia, abbassando le palpebre, lasciando una leggera scia rossa.
Poi sorrisi. Mi sentii superiore a tutto e tutti.
Appena fui cosciente dei miei pensieri, mi venne da ridere.
“Sono pazza, completamente pazza! Oddio, non riesco a smettere di ridere!”
Non riuscivo a smettere di ridere, poi di colpo, divenni seria e tornai a guardare il suo corpo.
-Non puoi nemmeno immaginare in quanti gioiranno della tua morte. Me in primis.
Mi sfuggì un altra risata, corta e acuta.
-Non te l’ho mai detto in faccia, ma ho sempre pensato che tu fossi una ballerina pessima se per vincere questo trofeo del cazzo hai dovuto sabotare la mia performance rovinandomi per sempre la carriera.
Presi una pala e iniziai a scavare.
-Nessuno ti troverà qui. Chi mai potrà immaginare che Letizia Marconi, all’una di sera, si trovava su una collina per poter riavere indietro un stupido trofeo vinto tre anni fa, perché poteva ricordarle l’unico momento in cui i suoi genitori l’abbiano considerata e lodata? Assolutamente nessuno.
Avevi proprio ragione, sono l’unica persona che ti abbia conosciuto per chi veramente eri.
Pubblicità
Standard

24. Patto mortale

Il rumore delle lancette dell’orologio rimbombava sul corridoio, come se il tempo che io passavo potesse avere voce; una voce ritmica, calma, soffocante, fastidiosa.
Tick, tock, tick tock.
Ero seduta su quella vecchia sedia da almeno quaranta minuti.
Lo sguardo fisso sulle lancette dell’orologio. Non mi accorsi di avere la bocca aperta finché la mia attenzione non venne catturata dalla luce della stanza accanto che iniziò a lampeggiare.
Girai la testa lentamente e appena il mio sguardo si posò sulla stanza la luce se ne andò.
Cambiai la mia postura, troppo tempo nella stessa posizione.
Quella stupida lampadina doveva essersi fulminata, feci un sospiro.
Per quanto potesse essere bella la casa di mia nonna, era molto vecchia.
E non c’era più nessuno con lei da tempo che potesse aiutarla a mantenerla in ottime condizioni.
Mia nonna era molto vecchia; una donna misteriosa e piena di segreti.
Da un mese ero in sua custodia, unica famigliare ancora in vita.
E adesso anche lei stava morendo.
Sentii tossire mia nonna nella sua stanza.
Volevo entrare, ma non potevo.
-Nonna, fammi entrare.
Dissi decisa.
Una voce roca mi rispose, tra un colpo di tosse e l’altro:
-Ti ho detto di no, nessuno deve entrare. Vai in camera tua, Alice. Per favore.
-Perché non mi lasci entrare? Stai male, sei malata da giorni. Sono io che devo chiederti per favore, fammi entrare.
-Ho detto di no! Entra e io mi ammazzo direttamente!
-È da un mese che sono entrata in questa casa e non ho mai visto il tuo viso! Ti sembra normale una cosa del genere?!
-Sta zitta! Fatti gli affari tuoi,Alice!
-Che problemi hai?! Siamo solo io e te, ma è come se fossimo completamente sole. Sono stufa di sentirmi sola in questa casa maledetta!
Mi stavo irritando, iniziai a camminare per il corridoio, alzando il tono della voce.
-Sei malata! Almeno permetti ad un dottore di farti visita!
-No!No!Nessuno deve vedermi!
-Non hai un briciolo di cuore per me? Sono tua nipote. I miei genitori sono morti. Ho solo te come famiglia, mi sembra di vivere con un fantasma!
La sentii tossire forte.
-Io rimarrò qui vicino alla porta, finché non deciderai di farmi entrare!
-Allora puoi anche morirci perché quella porta non si aprirà mai. Preferirei morire piuttosto che esser vista da qualcuno.
Mi buttai per terra, ero arrabbiata, molto arrabbiata. Sentivo che niente e nulla aveva un valore.
Quando qualcuno si sente così, non dà più importanza a nulla, specialmente a quello che dice:
-Allora sai che ti dico? Ti tratterò così come tu hai trattato me! Se ti piace così tanto, muorici là dentro! Non meriti che qualcuno perda tempo per te! Me ne vado! Hai capito? Me ne vado!
Non ci fu risposta.
Ero diventata isterica e furiosa. Scappai in camera mia e presi una piccola valigia, iniziai a buttarci dentro i miei vestiti.
Non riuscivo più a trattenere le lacrime.
Iniziai a singhiozzare per terra, con ancora in mano un maglioncino da buttare dentro la valigia, la vista iniziò ad appannarsi e, senza capire perché, finii per addormentarmi.
Quando mi svegliai rimasi sorpresa.
-Come? Mi sono addormentata?
Guardai il maglioncino che avevo ancora in mano, poi alzai lo sguardo sulla valigia. Non c’era più.
Mi alzai di colpo.
-Dove sono i miei vestiti?
La prima cosa che aprii fu l’armadio e li ritrovai tutti lì, al loro posto. Presi una maglietta e con sguardo incredulo la studiai.
Poi sentii un forte tonfo, come se qualcosa di pesante fosse caduto.
 Mi girai di colpo, buttai la maglietta nell’armadio e mi avviai verso l’origine di tale rumore.
-Nonna? Sei tu?
Nessuna risposta.
-Nonna, hai messo tu a posto i miei vestiti?
Ancora nessuna risposta.
Stavo camminando lentamente lungo il corridoio, le luci iniziarono a fare strani giochetti, come accaduto prima.
-Ho paura, nonna, per favore, rispondimi. Dimmi che ci sei…
Le luci in tutta la casa scomparvero.
La temperatura si abbassò di colpo.
Provai ad accendere l’interruttore ma nulla, cortocircuito totale.
Mi strinsi in un abbraccio solitario, come per riscaldarmi le braccia infreddolite.
Sentii un tuono che mi fece trasalire, fuori avrebbe iniziato a piovere a momenti.
Ero vicino alla camera di mia nonna, una luce fioca si intravedeva dalla piccola apertura creata dalla porta.
-La porta è aperta…
Bisbigliai tra me e me.
Spostai lentamente la porta e la mia vista poté vedere per la prima volta la camera di mia nonna. Non c’era nulla di strano, anzi il fatto strano era proprio quello che tutto sembrava troppo in ordine.
Il debole rumore della pioggia fece la sua comparsa.
-Non pensavo…avesse le forze di pulire..
E feci scivolare il dito su un mobile, constatando che era assente da polvere.
Guardai attentamente il letto matrimoniale, le coperte erano disfatte.
Posai le mie mani per controllare la temperatura.
-È…ancora caldo…ma dove può essere andata?
Un debole suono di qualcosa che striscia nell’oscurità mi prese di sorpresa. Sentii la pelle d’oca sotto i miei vestiti. Rimasi ferma immobile, proveniva da dietro di me.
Si aggiunse un debole ringhio doloroso.
-N..n..nonna…
Fu l’unica cosa che fui in grado di dire.
Il ghigno di dolore si trasformò in un respiro affannoso, che sentii sul mio collo, non riuscivo a trattenere le lacrime dalla paura.
Poi un tuono mi fece trasalire.
Urlai e scappai verso la porta, ma questa si richiuse di colpo.
Mi sentivo in trappola, congelai sulla porta dalla paura, non capivo cosa stava accadendo.
Ora si sentiva soltanto la pioggia che graffiava il vetro.
Dopo un breve momento di silenzio, sentii una voce che bisbigliava il mio nome, non era la voce di mia nonna.
-…Aaalicee….
Ero paralizzata dalla paura, avevo paura di muovermi.
-…Aaaaliceee…
Non osavo rispondere.
-ALICE!
Il tono sembrava demoniaco, come se provenisse da un’altra dimensione.
-Non ti hanno insegnato a rispondere?!
Ancora non sapevo che dire e cercavo di aprire inutilmente la porta.
-Sembra proprio di no.
E poi scomparve di nuovo. La porta finalmente si aprì e presi a correre fuori.
Dovevo arrivare in camera per prendere la chiavi, aprire la porta e uscire, ma caddi di colpo sul pavimento.
Il sangue iniziò a sgorgare con furia dal mio naso, faceva molto male.
Cercai di alzarmi, ma la testa mi girava e con la vista offuscata mi sembrò di vedere una figura in sottoveste davanti a me che mi sussurrava lentamente:
-Rispondi, Alice. Rispondi quando ti chiama.
Era la voce di mia nonna, ma come se provenisse da un’altra dimensione.
Mi alzai con difficoltà e cercai di allontanarmi da lei, ma non osai ritornare nella sua stanza.
Scomparve, ma sapevo che era lì.
-Chi..è…. nonna…cosa sta succedendo?
Mi alzai e andai verso la mia stanza.
-Non ti preoccupare, finirà tutto presto, solo se gli risponderai.
-Aiutami! Voglio uscire da qui!
Presi le chiavi dalla mia camera, erano sul letto.
Qualcosa mi prese dai piedi e mi trascinò sotto il letto con forza.
Cercai di lottare con tutte le mie forze per non permetterglielo.
-Lasciami andare! Aiutoooo!
Alla quale la voce demoniaca disse:
-Cosa hai detto?
-Ho detto.. LASCIAMI ANDARE!
Quest’ultima rise malignamente e la presa sulle mie gambe si sciolse.
Riuscii ad alzarmi e poi sentii suonare una melodia.
Aveva una strana influenza su di me, mi faceva venir voglia di sdraiarmi sul letto e addormentarmi.
Così mi misi sul letto e chiusi gli occhi.
Per sempre.
La strana melodia continuava a suonare, la pioggia aveva smesso e qualcuno stava cantando dolcemente.
Davanti ad uno specchio, in camera della nonna, Alice stava finendo di pulirsi il viso dal sangue.
-Che bello….essere…di nuovo giovani. Non credevo avresti mantenuto la tua promessa.
Dietro di lei si ergeva una figura alta e scura, del quale si intravedeva il riflesso nello specchio.
-Un’anima per un corpo. Non era una promessa. Ma un patto.
Standard

23. Caccia in una notte di luna piena

dark-forest1d
Il mio risveglio fu doloroso. Mi sentivo senza forze, totalmente inerme. Sentivo l’umido che mi circondava la gola ed il petto. Faceva molto freddo.
Una luna piena, silenziosa e possente, brillava nella notte oscura.
Non sapevo dove mi trovassi, avevo paura.
Mi alzai barcollando e mi accorsi di trovarmi in un bosco.
Mi toccai il collo, faceva molto male.
La vista del sangue sulle mie vesti mi terrorizzò.
Con il viso scioccato iniziai a urlare per chiedere aiuto. Nessuno mi rispose.
Solo il rumore della vita notturna del bosco si poteva sentire e di come ignorasse completamente la mia esistenza.
Mi sedetti vicino ad un albero cercando di fare mente locale per capire dove mi trovavo. Mi resi conto sconcertata di non ricordare nemmeno più il mio nome.
Misi le mani in tasca alla ricerca di qualche documento, ma trovai solo un nastro rosso che rimisi subito a posto.
Cercai di studiare i miei abiti, ma non mi dicevano nulla. Pantaloni neri e maglietta nera, nient’altro, nemmeno le scarpe.
La mia attenzione fu attirata da un brusio inaspettato alla mia destra. Mi abbassai e mi misi in guardia. Il rumore si sentì di nuovo, ma niente e nessuno sembrava voler sbucare fuori.
Mi avviai lentamente verso l’origine del suono e vidi una figura umana senza scarpe, come me, arrancare sul suo cammino, appoggiandosi con la mano sui tronchi che incontrava e con le unghie lunghe e inumane graffiare la corteccia, producendo il rumore da me sentito in precedenza.
Ad un certo punto la sua attenzione venne attirata da qualcosa alla sua sinistra, sentii un colpo e lo vidi cadere a terra, mi nascosi dietro un albero.
Comparve un uomo con una pistola argentata in mano.
L’altro era per terra agonizzante mentre colui che gli aveva sparato lo colpì con il piede, facendolo girare dall’altra parte in modo da poter essere faccia a faccia con lui.
Si abbassò per guardarlo negli occhi.
-Pensavo fossi da solo…spiegami perché ho sentito prima qualcuno urlare.
-Vaffanculo, cacciatore bastardo!
-Sai, a noi bastardi non piace ripeterci due volte. Rispondi alla mia domanda, demone!
-Non.Lo.So. E ora uccidimi, facciamola finita una buona volta.
Il così detto cacciatore iniziò a prender a pugni la sua preda.
-Ma come mai così debole, demone?
Lui cercò di difendersi e nell’allontanarsi dal cacciatore venne più vicino a me.
Mi aveva vista.
I nostri sguardi si incrociarono, il suo si illuminò, il mio lasciava trasparire tutta la paura che provavo.
Lo sentii bisbigliare: O L I V I A .
E ricordai immediatamente tutto.
Eravamo nel bosco, io e lui.
-I cacciatori sono sulle mie tracce, non voglio che uccidano anche te. Perché mi hai seguito?!
-Perché sei come un fratello per me! Non posso abbandonarti nel momento del bisogno!
-E io non posso permettere che tu muoia a causa mia.
-E che cosa vuoi fare?
-Ti devi dimenticare di me.
-No,James! Non farlo…potresti morire…
-Non ti preoccupare, tornerò da te…e se non tornerò, che tu mi abbia dimenticato non è un problema.
-Ja..a
Le parole mi si bloccarono in gola. Lui mi morse.
Bere il sangue di un suo simile poteva ucciderlo, ma farlo significava avere il controllo mentale sull’altro.
-Quando ti sveglierai e sentirai pronunciato il tuo nome, Olivia, ricorderai tutto, ma per adesso devi dimenticare. Dimentica…
E così fu.
Tornai alla realtà e mi accorsi che il tempo non era minimamente passato.
James aveva ancora lo sguardo su di me e terminò di bisbigliare quello che aveva da dirmi.
-Corri.
Venne colpito alla testa di sorpresa, lo vidi crollare a terra, con gli occhi girati verso l’alto.
Non riuscivo a trattenere le lacrime.
Feci dei passi indietro e nel farlo fui troppo rumorosa.
Il cacciatore stava venendo verso di me, iniziai a correre, ma dentro di me, volevo vendetta.
Sapevo di essere più forte di lui e l’unica cosa che rendeva i cacciatori potenti era che lavoravano in gruppo con armi a noi ostili, ma lui era solo.
Mi mostrai al cacciatore.
La prima cosa che guardò erano i miei piedi nudi, sogghignò sicuro di sè puntandomi la pistola contro.
Era quello che volevo accadesse.
Feci volare la pistola dalle sue mani e la presi io. Sapevo che sarebbe stato estremamente doloroso per me, infatti le mie mani vennero bruciate, letteralmente in fumo.
Puntai la pistola verso di lui e gli sparai alla pancia senza perdere tempo.
Gettai lontano la pistola e mi avvicinai al cacciatore sdraiato per terra.
Stava ridendo istericamente, mentre le mie mani diventavano fumo.
-I miei compagni ti troveranno e ti uccideranno! Hai fatto un grosso sbaglio ad uccidere uno di noi, dovevi semplicemente scappare.
-Stai zitto, è questa la fine che meriti.
E gli saltai alla gola, cibandomi di tutto il suo sangue.
Finita la mia cena, tra le dita bruciate presi il mio nastro e lo rimisi al suo posto, a incorniciarmi la fronte.
Standard

22. 太 陽 天 .

GIAPPONE-fioritura-ciliegi-Hanami

C’era una volta una dolce signorina, con la pelle bianca e gli occhi a mandorla.
Viveva in un palazzo sulle rive di un fiume e dipingeva all’ombra di un ciliegio.
Un giorno passò di lì un giovane viaggiatore.
Lui la vide e se ne innamorò. Ma aveva troppa paura di rivolgerle la parola.
La signorina non si accorse della presenza del viaggiatore e il giovane continuò ad ammirarla da lontano.
Un giorno il vento portò via il dipinto della signorina, facendolo cadere ai piedi del giovane.
I due finalmente si incontrarono.
Gli occhi chiari del viaggiatore piacquero molto alla signorina, la quale si innamorò.
Da quel giorno si incontrarono abitualmente all’ombra del ciliegio.
Una notte d’estate confessarono finalmente il loro amore.
Non passò troppo tempo che la signorina iniziò ad aspettare un bambino.
Il severo padre appena capì l’accaduto rinchiuse la signorina nella stanza più remota del palazzo.
Il giovane non ebbe più sue notizie e preoccupato si fece coraggio e bussò alle porte del palazzo.
Appena il padre lo vide ordinò il suo assassinio.
Una freccia gli trafisse il petto.
Guardò in alto e vide per l’ultima volta il viso scioccato della signorina che faceva capolino da una piccola finestra.
Con la morte del giovane morì anche l’anima della signorina.
Per la disperazione, non ebbe le forze di sopravvivere al parto. Morì anche lei, dando alla luce una bambina.
Il padre appena vide il frutto dell’amore dei due giovani rabbrividì.
Una bimba dai capelli chiari come il sole e gli occhi come due mandorle cristalline.
Fu chiamata Taiyo Ten (太陽天).
Taiyo Ten fu cresciuta lontano dall’attenzione del paese e solo due persone sapevano della sua esistenza; il nonno e la badante.
Nella sua solitaria stanza Taiyo Ten dipingeva come la madre prima di lei.
Sognava un giorno di uscire dalle solite quattro mura e vedere cosa si celava oltre il fiume.
Una sera mentre contemplava la Luna dalla solita finestra, sentì dei rumori forti.
Spaventata, corse tra le braccia della badante preoccupata.
Urla, spari e oggetti che cadevano si sentivano da fuori.
La porta della sua stanza fu abbattuta e due soldati sporchi e macchiati di sangue entrarono.
Appena la videro si spaventarono per la sua particolare bellezza.
I due soldati uccisero la badante per poter rapire Taiyo Ten.
La scena fu troppo cruente per la povera giovane, la quale svenne in un sonno profondo, con le guance rigate dal pianto.
Si risvegliò in un luogo buio, sentiva i piedi e le mani legati.
Alzandosi con tutta la forza che le era rimasta in corpo, si diresse verso la piccola finestra che le fu riservata.
Vide in lontananza il palazzo in cui aveva vissuto che andava a fuoco e capì di trovarsi a bordo di una barca, navigante sul fiume.
Il tempo passò e nessuno venne a farle visita; l’unica cosa che entrava nella sua prigione era un piatto di cibo che la manteneva in vita.
Un giorno il silenzio a cui si era ormai abituata venne disturbato da rumori e voci a lei sconosciuti.
Appena guardò fuori dalla piccola finestra vide quella che sapeva riconoscere essere una città.
Nonostante la sua situazione tragica, sentì un brivido di euforia e speranza percorrerle la schiena.
Le porte della sua prigione furono finalmente aperte e davanti a lei si ergeva la figura di un nobile signore.
Oltreggiato e infastidito dalle condizioni in cui fu costretta Taiyo Ten a vivere, ordinò ai suoi servi di liberarla e trattarla come la sua rara bellezza ordinava di farlo.
Fu avvolta in una coperta e condotta ad una carrozza.
Prima di salire il suo sguardo viene rapito da un giovane misterioso, dalla pelle abbronzata ed una grande cicatrice sul volto.
Il giovane ricambia sorpreso lo sguardo e scompare.
Taiyo Ten viene condotta ad un palazzo più grande di quello in cui aveva vissuto antecedentemente e dopo esser stata trattata come conveniva ad una nobile come lei, le viene comunicato che il principe le ordina di presentarsi stasera alla cena in suo onore.
Non riesce a mandare giù un solo boccone.
Il principe, di fronte a lei, le sorride ma questo la fa solamente piangere.
Lui, a quel punto, non sorride più e le rivolge uno sguardo offeso e arrabbiato.
Taiyo Ten si accorge che il principe si era alzato e avvicinato a lei.
Alza lo sguardo e questo la picchia sul viso, facendola cadere.
Poi ritorna a sorridere e le ordina di sorridere anche a lei.
“Non ti ho rapita per comportarti in questo modo in mia presenza distorcendo tutta la tua bellezza!”, furono le sue scuse.
Taiyo Ten rimane sconvolta dalle sue parole e in silenzio, con tanta forza di spirito, rifila al principe il sorriso più falso del mondo.
Scoprire di esser stata rapita dal principe per il suo aspetto, dopo che costui aveva mandato una spia professionale per cercare la più bella donzella del regno per averla come concubina, finisce per traumatizzarla completamente.
Finita la disturbante cena, Taiyo Ten torna nella sua stanza.
Non riesce più a sopportare il dolore e inizia a distruggere tutta la stanza in cui è stata di nuovo rinchiusa.
Stanca di una vita da prigioniera decide di porre fine alle sue sofferenze tagliandosi la gola.
Viene fermata in tempo da uno sconosciuto incappucciato, prima che la lama potesse recidere in profondità la gola.
Si gira di colpo verso la figura incappucciata, tirandole di forza il cappuccio.
Lo sconosciuto era il giovane misterioso che aveva visto in città.
Curiosa gli chiede spiegazioni.
Lui non vuole dargliele, allora lei lo minaccia di uccidersi di nuovo, ficcandosi metà lama in bocca.
Il giovane le confida di essere lui la spia professionale di cui il principe le aveva parlato.
Però, ritrovandosi pentito delle cause scaturite dalle sue azioni, le promette di essere disposto a vegliare su di lei.
Taiyo Ten si sente completamente circondata da nemici e decide di usare il dispiacere della spia a suo favore, costringendolo a insegnarle l’arte della guerra.
Solo dopo averle insegnato tutto quello di cui ha bisogno per proteggersi da sola, lui potrà avere il suo perdono.
Così ogni notte Taiyo Ten viene addestrata dal giovane, mentre di giorno sopporta con incredibile forza di spirito i trattamenti prepotenti e sadici del principe.
Il tempo passa e lei finalmente è pronta.
Pronta per la vendetta e pronta per perdonare il giovane.
I due ora si sentono più uniti che mai e anche se non si allenano più, continuano a vedersi ogni notte, finendo così, lentamente, per innamorarsi.
Ma Taiyo Ten inizia a sentirsi male e capisce di essere incinta.
Appena il principe lo viene a sapere viene conquistato da una furia omicida indescrivibile, non avendo lui mai toccato in quei precisi modi il corpo della sua futura sposa, limitandosi infatti solamente a picchiarla.
Ma ormai Taiyo Ten conosceva l’arte della guerra e il principe non aveva più niente con cui sorprenderla.
Quella notte, mentre lui si accingeva a ucciderla nel sonno lei si protesse con un colpo sicuro, inflitto dalla stessa lama con cui in passato aveva intenzione di uccidersi.
Uccise il principe, sentendosi soddisfatta e liberata da un grandissimo peso.
Ma il principe aveva fratelli e amici fidati e lei sapeva che costoro si sarebbero vendicati, quindi si ritrova costretta a scappare.
L’alba inizia a sorgere e lei cammina tutta preoccupata tra le strade della città, per lei sconosciute.
Incontra finalmente una persona; un vecchio contadino che trasporta un sacco di patate sulle spalle.
Appena la vede, il contadino cade in ginocchia chiedendole di rispiarmiargli la vita, rivolgendosi a lei come se fosse un fantasma pauroso.
Taiyo Ten divertita da questa reazione, la usa a suo vantaggio.
Approfitta della paura del contadino per racimolare informazioni su dove poter trovare il suo amato.
La voce gira e finalmente le viene detto dove può trovare colui che cerca.
Sentendosi finalmente libera, corre verso la sua meta.
Sono finalmente insieme.
Ma il pericolo è alle porte.
La voce di una ragazza simile ad un fantasma ma bella come il mattino insieme alla notizia dell’assassinio del principe da parte sua, arriva pure alle orecchie dei fratelli e degli amici del principe, che cercano vendetta.
I due innamorati, sapendo di essere diventati dei ricercati decidono di lasciare al più presto la città, ma vengono catturati prima che questo accada.
Il giovane, per proteggere Taiyo Ten, si prende la colpa dell’assassinio del principe e viene giustiziato davanti ai suoi occhi.
Con il suo sacrificio, Taiyo Ten finalmente è libera.
Torna alla sua vecchia casa e ne costruisce una piccola vicino, all’ombra del ciliegio sotto il quale la madre dipingeva in tempi ormai dimenticati, dove d’ora in poi vivrà finalmente in pace e tranquillità, crescendo il figlio che porta in grembo con tutto l’amore che il suo compagno le ha insegnato a provare.

Standard

21. La ragazza di stoffa.

Immagine
C’era una volta un grandissimo castello delle bambole senza cancello.
Aveva quattro grandi torri e cento stanze.
Le mura, le porte e i mobili erano di stoffa; decorazioni, colori, fantasie, bottoni, aghi, nastri, gomitoli regnavano incontrastati.
Nel castello abitavano cento bamboline, una diversa dall’altra.
Cucivano e giocavano. La loro allegria e il loro duro lavoro avevano reso il castello un posto bellissimo e coloratissimo.
Su ogni porta, di ogni stanza, era impresso un numero seguito dal nome della bambola proprietaria.
Matilde Mirtillo era la prima bambola, Rosella Trecciona la seconda, Susy Dolcecuore la terza…e così via.
Fino ad arrivare a Zae l’Incompleta, la centesima bambola.
Tutte le bambole cucivano e giocavano, Zae non sapeva cucire e non sapeva giocare.
Il suo vestito sembrava il fazzoletto usato di un vecchio signore ormai deceduto, i capelli erano fatti con lana sporca e non erano stati tagliati a mo di acconciatura, i bottoni al posto degli occhi erano di misure diverse, per giunta quello destro era scheggiato da un lato, la bocca non era stata cucita con cura e la stoffa usata per la sua pelle era ruvida e si strappava facilmente, portando Zae a ricucirla distrattamente là dove si rompeva. Le mura della sua stanza erano cucite con le stoffe che rimanevano dai lavori delle altre bambole, un caotico mosaico di toppe colorate dalle incongruenti forme geometriche.
Era la bambola brutta, la bambola senza talento, la bambola che non parlava e che faceva paura…
Ed era l’unica bambola triste e sconsolata.
Ma non era triste perché le altre bambole non la accettavano perché era diversa, non era triste perché le altre bambole non volevano avvicinarsi a lei, non era triste per i commenti che le bambole le facevano quando usciva dalla sua stanza per andare a raccogliere il resto delle stoffe e dei fili che loro si lasciavano dietro.
Zae non voleva la loro accettazione, non voleva la loro comprensione, non voleva la loro amicizia.
Lei era triste perché non poteva andare via dal castello.
Le bambole avevano finestre piccole, con imponenti tende colorate che coprivano il panorama, perché a nessuna interessava cosa ci fosse fuori dal castello, nessuna bambola era mai uscita fuori dal castello, mentre Zae aveva una grande finestra, senza tende.
La mattina vedeva il sorgere del sole, la sera il tramonto e la notte la luna luminosa.
Vedeva le nuvole, vedeva un grande bosco, vedeva gli uccelli volare, i fiori fiorire sotto il castello.
Zae voleva poter uscire dal castello, voleva vivere nel misterioso panorama che lo poneva davanti la sua grande finestra.
Lei non sapeva cucire e non le piaceva, lei non sapeva giocare e non le piaceva, a lei non piacevano le altre bambole, perché lei non si sentiva una bambola, a Zae piaceva soltanto il misterioso panorama.
Nel suo petto sentiva pulsare una forte energia, che le procurava dolore.
Più passava il tempo, più il suo petto pulsava, finché un giorno, il petto iniziò ad aprirsi piano piano.
Uno strano liquido rosso iniziò a fuoriuscire, facendole sempre più male, cercò di coprire il misterioso buco nel petto con altra stoffa..
Uscita di corsa dalla sua stanza si diresse dalle altre bambole, quest’ultime la vedevano che le guardava mentre loro cucivano e ridevano, lei interruppe il loro lavoro.
Tutte notarono la benda sul suo petto, di colore rosso, le sue mani di stoffa sporche del liquido ormai asciutto.
Poi la sentirono per la prima volta parlare, Zae chiese alle altre bambole se una cosa del genere fosse mai accaduta a una di loro.
Nessuno rispose, solo flebili commenti in sottofondo.
Zae corse nella sua stanza, la rabbia che provava le faceva pulsare il petto sempre più intensamente.
Guardò fuori dalla sua finestra, piangendo e battendo le piccole mani di stoffa sul muro.
Le altre bambole parlavano tra di loro e Matilde Mirtillo propose di allontanarla dal castello.
Era strana, le succedeva qualcosa di strano, avevano tutte paura e così… accettarono la proposta di Matilde Mirtillo.
Si stavano avviando verso la stanza di Zae per portarla fuori dal castello.
Dentro la sua stanza, Zae urlò dalla finestra il suo dolore.
Le sue mani di stoffa presero fuoco, lei vide la stoffa bruciare, diventare nera, sentiva il calore, ammirava la bellezza del fuoco e si lasciò sfuggire un sorriso mentre tutto il suo corpicino di stoffa prendeva fuoco.
Vide la altre bambole aprire la porta della sua stanza, vedeva le fiamme impadronirsi delle mura.
Vide Matilde Mirtillo prendere fuoco come lei, ma sembrava le stesse facendo male.
Poi una bambola dopo l’altra presero tutte fuoco, così come il loro castello.
Zae vedeva tutte urlare e correre disperate, come in preda ad un dolore inimmaginabile.
Solo lei non sentiva altro che dolce calore e piacere nel vedere bruciare tutta la stoffa, diventare calda e nera, per poi volare via nell’aria.
Se il castello scompariva, scomparivano tutti i suoi problemi.
Così, in mezzo ad un divampante incendio, la nostra piccola Zae salterellava contenta, mentre le sue compagne bambole si contorcevano dal dolore nelle fiamme.
Poi Zae cadde in un sonno profondo e tranquillo.
Si risvegliò con il dono della sfera sensoriale.
Sentiva la cenere calda sul suo corpo, l’odore della stoffa bruciata, l’aria nei polmoni, le immagini non furono mai così nitide e reali, il gusto della cenere sulle sue labbra non poteva mai immaginare che esistesse e i rumori che la foresta produceva, non furono mai così forti.
Guardò il suo corpo, lo sentì sotto le dita, era umana.
Niente più castello, niente più solo cucire o giocare, c’era tutto un mondo da scoprire e delle sensazioni da provare.
Guardò i novantanove scheletri neri delle altre bambole, che non erano morte da bambole, ma da esseri umani.
Si dispiacque veramente molto per loro.
Ma un uccellino nero si posò sulla sua spalla sporca, lei gli sorrise.
L’uccellino volò verso la foresta e lei lo seguì, correndo e sorridendo.
Ora il pulsare del suo petto non le faceva più male, perché il suo cuore, finalmente, iniziò a vivere.

 

Standard

20. Lettera ad una ragazza incosciente di vedere il mondo attraverso il velo della pazzia.

” Hey,ciao,
sono finita per caso sul tuo blog, e mi ha spinto una voglia matta di scriverti, notando anche che sembra desideri che la gente ti scriva e ti cerchi.
Più scrollavo giù, più mi chiedevo come fa una persona ad accettare il peggio di se stessa.
Notavo che descriverti con aggettivi orrendi, per non parlare della tua morbosa ambizione, sembri non darti fastidio… e uno strano senso di dispiacere mi percuoteva, tanto da sentire il bisogno di, non lo so, provare a dirti il mio punto di vista, un punto di vista su tanti, forse il meno pignolo che riceverai e il più incoraggiante,o almeno questo spero.
Mi chiedo ecco,perché dovresti arrenderti all’idea di essere una persona orrenda?
La tua ambizione è palesemente la ricerca di una sola cosa: la morte.
Perché volere una cosa del genere, significa puntare alla morte, una morte che, visto che tratta l’argomento fisico, forse ti potrà portare un po’ di soddisfazione nel farti sentire bella, perché forse non hai ancora trovato qualcuno che possa vedere la tua personale bellezza (del carattere e non solo), ma bella non ti ci sentirai mai veramente, perché la tua ambizione è cieca e il tuo premio invisibile.
La vita non è bella, la vita è vita, è così complicata che non bastano le belle parole o le brutte parole per descriverla, il mondo è gigantesco, va al di là della semplice concezione umana quello che questo mondo, universo può dare…è vedere solo il lato brutto delle cose, come esseri umani, è lo sbaglio più grande che possiamo fare.
E tu dolorosamente lo stai facendo, sei una persona, una ragazza e per giunta penso intelligente, che tu veda così poco di tutto quello che c’è in questo mondo è deludente, ti crei da sola la malattia e la alimenti, tutto per il semplice fatto di aver accettato la parte più debole di te..gli umani sono deboli, ma quelli che si arrendono e non combattono per la propria vita sono dei codardi, quelli che non voglio realizzare i propri sogni, o almeno provarci, sono dei perdenti.
Ci nasciamo deboli, ma tirare fuori un po’ di coraggio è quello che farà la differenza, sempre.
Tu vuoi veramente continuare ad accettare la parte più debole di te?
Non vorresti qualcosa di più per te stessa?
E’ davvero quel che desideri dalla tua vita quello che stai facendo?
Sei sicura della scelta madornale che hai fatto per il tuo corpo e per la tua stessa salute mentale?
Non so che vita hai potuto vivere, o che carattere hai, per aver fatto certe scelte (ma a questo punto penso non sia stata una vita facile)…ma ricorda sempre, per quanto la vita sia dura, anche solo provare a tirare fuori il meglio di se stessi porta più frutti che non abbandonarsi all’idea di aver perso in partenza.
Sei una ragazza che vuole amare..per amare ci vuole tanto coraggio.
Non importa poi come affronti le cose e la tua vita d’ora in poi (se mai ti sarai posta il dubbio che io cerco di farti venire) ma importa che tu, non lo so, almeno in parte, capisca quanto io scrivendo queste righe ti voglia incoraggiare a poter tirare il meglio di te, a vivere, non a soffrire e maltrattarti.
Non penso meriti questa sofferenza, non questa solitudine (la tua ambizione ti isola da se) e sarei contenta se iniziasti a dubitare di tutto quello che hai voluto credere e accettare fino ad ora.
Per ricevere cose belle dalla vita, bisogna essere belle persone, non perfette, ma provare a tirare il meglio di se ci rende tutti più belli, impegnarci, far vedere che qualcosa possiamo e abbiamo da offrire, ci rende anche quello più belli, potresti essere bellissima, anche solo per una persona, ma potresti esserlo, non pensare mai che qualcuno te lo impedisca, l’unica persona che lo sta impedendo sei tu stessa.
Quello che fai a te stessa, non è bello, lo sai tu, lo sa chi ti sta vicino (anche se sicuramente il tuo punto di vista non lo potranno mai comprendere), ma lo accetti, perché pensi che altro tu non possa fare.
Ma non è vero, ogni persona può fare qualcosa in questa vita…e l’unica cosa che tutti, ma tutti, possono fare, è amare, basterebbe quello a renderti felice e una persona migliore..
Ma non si ama se si vuole morire per se stessi, non si ama se si tira fuori solo il peggio di se stessi..e non si ama da soli.
Io sono sicura che se ti farai coraggio nella tua vita,riuscirai in qualcosa e anche solo il fatto di guadagnare una visione del mondo molto più ampia,sarà già una conquista per te.

Buona fortuna ragazza,ti incoraggio a far maturare il tuo potenziale e non a sotterrarlo sotto strati di paura.”

Con Affetto, M.

Standard

19. Una ragnatela ben tessuta che porti nelle fauci della follia.

Immagine
E’ incredibile quanto sia intricato e funzionante il meccanismo con cui, una malattia mentale come l’anoressia, possa prendere totalmente controllo della mente di una vittima, portandola a non ritrovare mai più la via per la salvezza da questo baratro di agonia.
Nella società odierna, determinate situazioni e determinati input che portino a entrare in questo circolo vizioso, sono più riscontrabili di qualsiasi altra epoca, creando una malsana e potente convinzione da cui non si può sfuggire, se non attrezzati di una certa forza di spirito e un distinto uso di materia grigia.
Le vittime preferite di questa personificata malattia (ANA), analizzando i punti che seguiranno, è più che comprensibile che siano le giovani adolescenti, ma anche le minoranze, di diverse generazioni e sesso, non sono immuni.

Il boom della moda delle ossa in bella vista, abbiamo avuto la sfortuna, di vederlo nascere in un ambiente di grande impatto culturale: la moda, colei che da sempre viene usata per “indottrinare”, generazione dopo generazione, le persone a seguire i suoi canoni, con la grande autorità che questa ha quando si tratta di dover comportarsi o abbigliarsi ,in modo da esser accettati o non, come OK nella società.
Principalmente, molti non sapranno, ma potranno dedurre, che questa continua ricerca e esigenza di stilisti di far sfilare modelle magre, fosse per semplice agevolazione del lavoro: più magre sono, meno tessuto si usa, più modelle magre ci sono, meno taglie diverse dobbiamo fare dei vestiti.
Ma come ogni probabile comportamento umano, il rischio di esagerazione con conseguente ossessione è sempre dietro le porte.
Da semplice agevolazione nello svolgimento del lavoro, diventa parte integrante della sfilata della modella, alzando il livello di importanza di tale situazione fisica, (e forse per poca mancanza di modestia di personaggi che lavorano in questo campo) fino ad arrivare ad una vera e propria “regola” da adoperare e da rispettare se si vuole diventare modelle.
MODELLE. Desinenza della parola MODELLO. Il significato di tale parola non starò certo qui a spiegarvelo, trattandovi come ignoranti.
Quindi, quando un comportamento umano ben indirizzato ad una precisa funzione, quella di portare alla sofferenza e alla morte, viene attribuito al ruolo che svolge una modella, in un mondo come la moda, le conseguenze saranno disastrose sulla fetta sociale di giovani ragazze, o di tutte quelle persone, che soffrono di bassa autostima e amor per se stessi.
Perché come ogni trauma (quel che svolge la vittima sul suo corpo è un vero e proprio trauma) porta alla negazione che ci sia davvero tutta questa sofferenza e dolore che si provano, alla negazione che tale stile di vita faccia perdere ogni ambizione, sogno e relazione importante nella vita della vittima, è un modo subconscio che il nostro cervello usa per sopravvivere, anche se per poco ancora e si chiama pazzia, tale situazione mentale (non si può chiedere a qualcuno a cui sono rimasti solo i cocci rotti che quelli siano inutili, perché a queste ragazze, rimane solo la malattia, solo i cocci).
Al fatto di dover ascoltare un mondo intero sempre pronto a idolatrare l’illogica coppiata BELLEZZA=MAGREZZA, si aggiunge la ricerca disperata di attenzioni, di vittime delle quali situazioni giornaliere, addizionando molto probabilmente una già bassa autostima, le vite si riempiono.
Sofferenza, grida di aiuto, convinzione di star seguendo un giusto filo logico del significato di bellezza e l’importantissimo, e non ultimo, fattore della semplicità di comunicazione e condivisione, creano la ragnatela perfetta della nostra velenosa e mostruosa Ana (anche solo trattarla in modo figurato come personificazione, mi schifa, perché è ovvio che questa sia frutto della sola immaginazione).
La semplicità con cui oggi si comunica, si condivide e si trovano informazioni, è terreno fertile per ambienti web in cui si possano riunire più vittime insieme, credendo che il fatto di essere tutti ugualmente malati, li renda normali.
Quando si tratta di patologie psicologiche, sembra che questa regola funzioni spesso, mentre se si trattasse di malattie virali o batteriche, non è proprio la stessa storia. Ma entrambi i casi sono malattie, sono situazioni di pericolo di morte, (non è che ora, se tutti hanno al raffreddore, se ce l’ho pure io, sono felice nel sentirmi accettato perché mi trovo nella situazione in cui si trovano tutti, mentre invece se io penso che i cieli siano verdi, e lo pensano anche tutti gli altri, significa che sono normale).
Ah, i buchi nella comprensione della realtà che ci circonda della maggioranza delle persone, sono forse, la principale causa del male della nostra passata, presente e futura società.
Tralasciando la piccola parentesi…il deperimento del corpo e della mente comincia.
Il corpo muore…e con lui la sanità mentale.
La comprensione malsana del significato di bellezza del ventunesimo secolo, stereotipi illogici da seguire, perdita di speranze e ambizioni, sofferenza continua, deperimento fisico e mentale, condivisione della pazzia e LA COMPLETA NEGAZIONE DELLA REALTA’ STESSA DI TALE SITUAZIONE, sono meccanismi che se vengono attivati a tempo debito, nella giusta sequenza, intrappoleranno fino alla morte la vittima, guidata dalle sue folli convinzioni.
Pochissimi casi, (maledico questi meccanismi da trappola mortale), vengono vinti.
La speranza e il coraggio, sono emozioni che l’essere umano, debole come è, difficilmente trova nei momenti giusti.
Ma, queste emozioni esistono e se sei umano, le puoi provare.
Molte vittime galleggeranno ancora ignare nella loro pazzia, nella loro negata sofferenza, ma se…
Una di loro, sta leggendo queste righe….
Per favore, mangi una zolletta di zucchero…
Perché il cervello ha bisogno di zuccheri per funzionare…
e IMPRIMA BENE A MENTE, LA PIU’ REALE E VERA DELLE AFFERMAZIONI:
NOI, ESSERI UMANI, SIAMO NATI PER SPERARE, SIAMO NATI PER ESSERE CORAGGIOSI.
NON CI SAREMO A QUESTO MONDO SE NON FOSSIMO STATI SPINTI A OLTREPASSARE I CONFINI E VINCERE LE SFIDE CHE CI SI PONEVANO DAVANTI.
TU, SEI UMANA/O, SEI UNA PERSONA.
C’E’ SPERANZA IN TE, C’E’ CORAGGIO.
TU MERITI LA VITA.
E RICORDA, L’UNICA SOFFERENZA CHE POTRAI MAI ACCETTARE E’ QUELLA DEGLI SFORZI CHE SI COMPIONO PER ADEMPIERE AI PROPRI OBIETTIVI, PERCHE’ HAI DIRITTO A COMBATTERE.
MA NON SEI OBBLIGATA A SUBIRE DOLORE CHE, AMMETTIAMOLO, NON VUOI MINIMAMENTE PROVARE.
L’unica persona che ti può salvare sei te stessa/o, gli altri potranno solo consigliarti e appoggiarti, ma se…da sola NON DECIDI DI INIZIARE A RIPRENDERE CONTROLLO DELLA TUA VITA, è inutile cercare aiuto dove non lo troverai mai.
Perché il tuo corpo appartiene a te, alla tua coscienza e solo tu decidi realmente cosa deve o non deve fare.

 

Standard

18. Nicholas Freund.

Per Nicholas Freund il mondo funziona grazie a sole due cose, che fanno da contenitori a ogni probabile conseguenza: Società e Civiltà.
La società è divisa in bambini, adolescenti, adulti e anziani; i bambini sono protetti e privi di qualsiasi responsabilità, gli adulti sono coloro su cui cadono le responsabilità del mondo che devono mandare avanti lavorando, ma nonostante questo, sono coloro liberi di fare le loro scelte e, in moltissimi casi, di scegliere anche per gli altri, gli anziani sono gli adulti che hanno svolto il loro ruolo nella società, arrivando a essere obsoleti per un mondo in continuo cambiamento, finalmente degni pensionati.
Gli adolescenti sono invece una tappa a cui il mondo odierno sembra essersi scordato di dare le giuste motivazioni per svolgere i loro ruoli. Sono responsabili del loro futuro, ma non possono fare nessuna scelta o decisione, lo studio che devono intraprendere per un lavoro futuro e per avere il proprio ruolo nella società, in ogni caso, non è una promessa che questo ci sarà. Devono rispettare tante regole, devono avere tante responsabilità, come un adulto, ma al contempo, non possono fare nessuna scelta, non possono venir presi in considerazione da qualcuno che possa offrir loro un lavoro con paga certa che possa renderli indipendenti, quindi vengono rispettati ancora come bambini.
Responsabilizzati come adulti, trattati come bambini.
Certo, forse all’intero mondo questo va bene, ma non a Nicholas Freund.
La civiltà è un insieme mutevole di regole e costumi, che ogni generazione ha visto come unica, giusta e assoluta la sua, lottando a volte per mantenere la tradizioni, a volte per sconfiggerle. Le persone devono assolutamente adeguarsi sempre alla civiltà, per Nicholas, non ci sarebbe l’espressione “umano” in un mondo senza una civiltà. La sua è la civiltà del ventunesimo secolo: la globalizzazione, il potere del denaro, le guerre economiche, il consumismo e il vaccilante equilibrio tra valori, emozioni, e potere, superficialità dell’animo.
Certo, forse all’intero mondo questo va bene, ma non a Nicholas Freund.
Alla mente di Nicholas Freund non vanno bene queste regole, la sua mente è “allergica” a queste cose.
Ha tanto odio dentro, ma sorride sempre.
Parla molto, ma nessun riesce a capire niente.
E fa tante altre cose “insensate”…
Nicholas porta i capelli lunghi, ma li tratta come se fossero corti.
La cerniera del suo zaino non si trova nella parte superiore, ma quella inferiore.
Porta pantaloni formali, ma li tratta come se fossero informali, non gli stira e ha le toppe alle ginocchia.
Compre le magliette a maniche lunghe, ma taglia le maniche.
E’ molto alto, ma porta scarpe dalla suola pesante e grossa.
Va a scuola per divertirsi, dando fastidio a tutti e studia per conto suo quello che è di suo interesse, con conseguenza che viene espulso ogni anno, da ogni scuola diversa.
Non ignora niente di quello che potrebbe causarli problemi, istiga i ragazzi a fare a botte con lui, non attraversa mai sulle strisce pedonali, risponde male a tutti quelli che vede più temuti e rispettati.
E’ totalmente e incredibilmente solo nella sua diversità, ma non si sente solo.
Abbandonato dai genitori, buttato nelle braccia di una sola e anziana nonna, non si sente di avere il diritto di essere mantenuto.
Ha dato un nome al suo cervello (Churro) come per ringraziarlo, di averlo fatto nascere così unico.
Ma, per quanto a tutti noi, Nicholas Freund ci possa sembrare pazzo, credetemi, quando vi dico…
Che se la sua libertà avesse un odore e voi la sentireste, avreste sentito il più dolce e paradisiaco dei profumi che possano mai esistere.

Standard

17.Short Elogy

Non si scrive spesso, anche se si vorrebbe. I pensieri e le idee ci sono, ma (Dio!) trovare le parole non è semplice. 
Ogni parola ha un significato, ogni significato ha un peso. 
L’espressione di un concetto è impegnativa e come ogni impegno, se portato a termine, può dare grandi soddisfazioni.
Per lo scrittore, la scrittura è un impegno e una responsabilità, che va affrontata in una determinata maniera.
Per il resto di noi, l’espressione attraverso la scrittura, è occasionale, in certi casi rara.
Ma se ci piace farla, continuiamo a farla.
Così è nato centoceanidistorie. Storie che potrebbero essere corte, potrebbero essere lunghe, potrebbero essere astratte, concrete, idealizzate, consigliere o anche semplici intrattenitrici.
E così deve continuare.
(Un corto elogio per me stessa, per convincermi a tornare a “Esprimere”).

Standard

16. Morbido rosso (parte 1)

Immagine

C’era una volta una bimba dai capelli rossi molto timida e calma. Così timida e calma che si spaventava a giocare con gli altri bambini che urlavano, si lanciavano giocattoli o li rompevano. Era una bimba che aveva cura di ogni cosa… i suoi pochi giocattoli erano tutti curati, i suoi disegni, ogni suo piccolo tesoro, tutto tenuto in ordine e curato; alla madre faceva tanta tenerezza e per questo le voleva un mondo di bene.
Ma suo padre non era bravo, la bambina sentiva sempre urlare e piangere la madre quando lui tornava a casa; per la bimba la madre, anche se le sorrideva, sopra la testa aveva sempre una brutta nuvola che tuonava e faceva piovere, quando glielo diceva, lei le ripeteva che “la nuvola che vedi è la realtà nascosta dietro al mio sorriso, non scordarti di essere in grado di vedere quello che gli altri non possono vedere, a volte è più reale della realtà stessa” e la bimba non capiva, ma in futuro avrebbe capito.
Un giorno la madre le fece un regalo.
Un piccolo, meglio dire, minuscolo e morbidissimo criceto rosso, come i suoi capelli.
La bimba se ne innamorò subito e tutta lo bravura nel curarsi delle piccole cose si riversò sul piccolo e fortunato criceto. La rendeva felice e rendeva felice anche la mamma.
Ma un giorno, successe il brutto.
La mamma, nonostante l’amore per sua figlia, iniziò a sentirsi veramente male per colpa del padre, così male che dovette andare in ospedale per tanto, tantissimo tempo…
La bambina rimase da sola col padre, si sentiva sola e aveva paura di lui.
Era distaccato, non gli interessava niente di lei e la bimba vedeva che dal sedere gli spuntava una brutta coda nera che a lei stava molto antipatica.
Ogni giorno però, la nonna accompagnava la piccola bimba all’ospedale per visitare la madre e si portava a presso il suo piccolo e grasso criceto rosso, i fogli e i colori per disegnare e la bambola dai capelli rosa e il vestito a strisce arancioni, la sua preferita.
La madre sorrideva sempre quando la vedeva così felice che veniva da lei, ma la bimba non voleva dirle che a casa non lo era, l’importante in quel momento era sorridere insieme a lei.
La madre era molto malata, così ammalata che sapeva che presto avrebbe lasciato la bimba da sola, ma non poteva permettere di lasciarla proprio da sola con il padre, che non si poteva chiamare padre.
Le rimaneva poco tempo da vivere, non sapeva cosa fare, ogni giorno passato con la sua piccola poteva essere l’ultimo, se era la fine, voleva almeno passarla solo con lei, l’unica sua ragione di vita, così decise di uscire dall’ospedale.
La bimba era felicissima di poter di nuovo stare con la sua brava madre.
La madre lottò contro il padre e vinse, la bimba ora non era più costretta ad avere attorno una figura pericolosa, specialmente per il suo futuro.
Dopo che il padre scomparì dalle loro vite, la madre si riprese.
Da quel momento passarono cinque bellissimi anni insieme.
Certo c’era qualche litigio, ma da ogni problema ne uscivano più unite.
La bimba, ora una ragazza, sapeva di essere veramente fortunata ad avere una madre come la sua, una madre che non era solo una madre, ma una compagna di vita, un’amica, una persona che merita veramente tutta la sua fiducia.
Nella sua vita c’erano sua madre e il criceto rosso, cresciuto anche lui.
Il resto del mondo per lei era troppo rumoroso, troppo caotico e pericoloso.
Era una ragazza delicata, con molti segreti, tranne che per sua madre.
La madre aveva paura per lei, la incoraggiava a fare sempre attenzione, ma non doveva, perché la ragazza sapeva quando la gentilezza degli altri era vera e quando invece non lo era e finora non aveva trovato una sola persona che le sembrava realmente gentile e calma come lei.
Poi… arrivò l’ultimo giorno.
La malattia era l’unico segreto che la madre non aveva detto alla figlia.
Le aveva insegnato molte cose, l’aveva amata come nessuno avesse mai potuto farlo, l’aveva incoraggiata e le aveva raccontato tutto di lei, tranne della malattia.
Non ci fu giorno prima della sua morte in cui la ragazza pianse così tanto, non aveva mai visto la vita da un punto di vista così negativo, sua madre non c’era più…
Non disegnava più, il suo talento e il suo amore per le cure si erano affievoliti…
Piangeva e non sapeva darsi delle risposte, delle motivazioni.
Iniziava a provare rabbia, dolore, agonia, solitudine…
Come l’avrebbero cambiata queste sensazioni?

Standard